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Frìvele e scagnuzze, farrète e puprète, attacche da ‘nnanze e pìcchje da dröte!!

2024-01-29 17:32

Sipontina Sacco

Cultura culinaria,

Frìvele e scagnuzze, farrète e puprète, attacche da ‘nnanze e pìcchje da dröte!!

Frìvele e scagnuzze, farrète e puprète, attacche da ‘nnanze e pìcchje da dröte!!

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Un viaggio ossequioso ed esilarante tra i cibi “mesti” ed opulenti del Carnevale Sipontino, dal Pancotto di Sant’Antonio Abate alla Farrata, passando per gli scagliozzi, i ragù opulenti, il peperato, i frìvele (o malembànde).

 

 

Cibi contriti e licenziosi, esorcizzanti e beneauguranti, le cui radici greco-romane affondano nei  Saturnalia, Lupercalia, Feralia, Anthesterie (Baccanali), Equiria, Ilarie, rituali isiaci: feste sfrenate ed inquietanti (la credenza popolare voleva che i morti, durante queste feste, salissero dagli inferi e si confondessero tra la folla festante), celebranti la ciclicità dell’esistenza, tra esaltazione della vita e celebrazione della morte come elemento catarchico e rigeneratore; la prima scintilla vitale nel ritmo lento e cadenzato dell’Eterno Ritorno, della Grande Madre. 

Si parla di un periodo di passaggio, nel corso dell’anno, tra il “vecchio e il nuovo tempo”; di caos e sovvertimento, purificazione e rinnovamento cosmico e spirituale. Un remoto “prima” ormai svuotato e smantellato, ridotto ad un lontano sentire da cui la parte più intima dei manfredoniani fa fatica a staccare.

 

Il Pancotto di Sant’Antonio Abate. Anello di congiunzione tra il Natale e il Carnevale; una pietanza ormai in disuso preparata, un tempo, con gli avanzi del pane di Natale cotti in un intingolo di cipolla e ventresca; il tutto ben cosparso di formaggio pecorino grattugiato. Un piatto umile ma allo stesso tempo grasso ed opulento che dal 17 gennaio, nei rituali culinari tradizionali, da il via alla celebrazione della vita con i suoi ritmi, le sue angosce, i segreti desideri, la necessità di evasione ed eversione.

Frìvele (o malembànde)Pasta minuta fatta a mano il cui  nome, di derivazione latina (da ferculum), potrebbe tradursi in “briciola” o “scheggia”. Il termine “malembànde”, invece, riporta a mal fatti, mille infranti, minutaglia in genere. La loro forma a granelli, evoca le granaglie consumate e offerte ai defunti nel giorno della loro commemorazione. 

Conditi con ragù opulenti, in cui galleggiano involtini di cotica, tracchie e spuntature, esprimono al meglio lo spirito del Carnevale, tra piacere e mortificazione.

 

Lo scagliozzo. Sfizioso triangolo di polenta di mais il cui nome rimanda all’etimologia di “scaglia”: pezzo tagliato grossolanamente, senza misura né rigori, così come vuole lo spirito del Carnevale. Non vanta origini arcaiche (il mais è arrivato in Europa dopo la scoperta dell’America e in Italia si è diffuso soprattutto al Nord; la prima ricetta risale agli inizi del 1900), ma da cibo umile e a basso costo, per decenni a Manfredonia, si è fatto valere come  vessillo dei fritti, opulenti e solari, che identificano, in ogni dove, il Carnevale. 

Dei frictilia celebrativi, a palline, a dischetti, a tortelli, a “lagani” tagliuzzati a mo’ di cenci o arrotolati a spirale, scrivono Catone, Apicio, Plinio, Ateneo di Neucrati, per citarne solo alcuni.

 

Il peperato. Ciambella impastata con miele e/o mosto cotto, in cui domina l’aroma della cannella e del pepe (nero, garofanato, dolce, Giamaica) da qui il nome “peperato”, dal latino piperatus indi pupurète, pupréte, prupate. È legato agli antichi dolci speziati greco-romani, tra i quali i mustacei, preparati in varie fogge: a ciambella, a tarallucci, a tozzetti, a serpente, e offerti a divinità e defunti come ex voto e di buon auspicio. Ancorato altresì al matrimonio, augura agli sposi eterna e proficua vita insieme.

 

Dulcis in fundo, la Farrata SipontinaRustico monoporzione tondeggiante, farcito di ricotta di pecora, grano bollito (un tempo preparato con il farro), maggiorana, pepe e cannella. 

È una ricetta tipica di Manfredonia inserita nell'elenco nazionale dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali (PAT) della Regione Puglia; da qualche anno è un prodotto dell’Arca - Slow Food.

 

Fin dai tempi più remoti, preparati a base di farro, latte, intero e coagulato, hanno rappresentato la base dell’alimentazione del popolo sipontino. Il farro, dopo essere stato torrefatto e battuto per eliminare le fibre legnose che lo rivestono, veniva bollito in acqua o latte, a chicchi interi o frantumati. Una curiosità: il termine “farina” deriva da far ad indicare il farro pestato o frantumato, così come “sfarinato”. 

In generale, i primi riferimenti alla farrata, come preparato culinario, risalgono all’epoca romana. In Historia Augusta, Vita di Geta (5,8), Giovenale (Satira XI), Aulo Persio Flacco (Satira VI) il termine “farrata” è usato come sostantivo per indicare la pietanza base degli antichi romani: una polta di  farro bollito nel latte, spesso condita con ricotta ed erbe aromatiche raccolte nei campi. Naturalmente, le classi agiate arricchivano le loro farrate con ingredienti di lusso quali carne, pesce, uova, miele. 

Non è da trascurare l’aspetto simbolico e sacro. Per lungo tempo il farro e i suoi preparati (polte e focacce farrate) hanno rappresentato i cibi offerti alle divinità e ai defunti. Il libum: una focaccia farrata rituale, non lievitata, si usava altresì come base su cui offrire offerte e sacrifici. 

Il poeta latino Ovidio nei Fasti scrive di focacce di farro, adorea liba, offerte alla Mater Matuta (divinità italica del mattino), durante le feste Metralia, organizzate in suo onore, e a Demetra, dea della terra e delle messi, durante le Idi di marzo.

Polte di farro, inoltre, si consumavano e si offrivano ai defunti nel terzo giorno delle Feralia e delle Antesterie, a fine febbraio; di polta farrata, inoltre, erano aspersi gli sposi durante il rito della conferratio (matrimonio patrizio) e una torta di farro, cacio e uova (libum probabilmente) si offriva a Giove e si spezzava tra gli sposi e i convenuti, come avviene oggi per l’ostia durante il rito della comunione cattolica.

Non è da escludere che nella antichità, polte farrate fossero offerte agli dei su piccole focacce di farro non lievitate: una sorta di archetipo della Farrata Sipontina.

 

La traccia più antica della Farrata Sipontina risale ai “cibari” dei Celestini e delle Clarisse in cui si documenta, con costanza, nei periodi 1664-1670, 1765 e 1767, tra i consumi del Carnevale: festività che affollava i conventi di ospiti laici ed ecclesiastici, arrivati in città per festeggiare.

 

Per gli ultimi 130 anni circa, si dispone, invece, di una molteplicità di fonti storico-culturale grazie all’impegno di noti studiosi di storia e tradizioni popolari locali: Antonio Gentile, Pasquale Ognissanti, Lorenzo Prencipe, per citarne alcuni. Di Michele Racioppa, un canto popolare in vernacolo, “A Farréte”, inciso e pubblicato nell’album “U Carnevéle Sipundine” (1991) del Gruppo Folk Sipontino. 

Si deve al lavoro certosino di Franco Rinaldi (cultore di storia e tradizioni popolari di Manfredonia, attore, cabarettista, regista, autore di lavori teatrali in vernacolo) una raccolta di testi, documenti, foto, memoria orale circa le tecniche e gli utensili per la preparazione e il consumo, i costumi, le credenze, i rituali, le soluzioni politiche ed economiche adottate nel tempo.

A livello nazionale, nel centro-nord Italia, si rilevano numerose pietanze dette Farrate, a base di farro (trasformato in farina e a chicchi integri), dolci e salate, e di origini antiche: si tratta di preparazioni assai diverse senza una composizione specifica; oltre al farro possono comprendere verdure, carne, pesce, a seconda dei casi e delle circostanze.

Le Farrate umbre e laziali, pietanze versatili con farina di farro e ingredienti aggiuntivi quali funghi, formaggi, vegetali, ecc.; le torte farrate della  Garfagnana, dolci e salate, a base di  farro bollito e ricotta, molto affini alla farrata sipontina; la Farrata di Lucera: un dolce pasquale a base di riso (una volta farro) e ricotta raccolti in una sfoglia di pasta.

Il punto di forza della Farrata Sipontina, rispetto alle altre Farrate italiane, è l’aver preservato una certa autenticità, con ingredienti ed esecuzione fedeli alle preparazioni arcaiche. Il rustico locale non si è lasciato inquinare da ingredienti di origine moderna, fatta eccezione per la cannella e il pepe: ingredienti già in uso nella  Roma Imperiale, ma diventati di facile reperimento a partire dal Rinascimento. 

Simbolicamente, per ogni manfredoniano la Farrata è un punto fermo, una bandiera, un pilastro indiscusso, un’istituzione. Si tratta di un legame coinvolto ed emotivo costruito nel corso dei millenni che va oltre il gusto e l’appetito e che ha a che vedere con lo spirito di appartenenza e la propria identità che si rinnovano di anno in anno nel periodo celebrativo del Carnevale. 

È per tali ragioni che si rende necessario fare delle riflessioni finali. 

 

Prima che questo patrimonio esclusivo ed identitario, scarsamente supportato e tutelato da iniziative pubbliche e di settore (studi storico-culturali, laboratori culinari, tavole rotonde, confronti multidisciplinari, ecc.), rischi di snaturarsi o, nel peggiore dei casi, di smarrirsi, venendo a mancare sempre più le atmosfere delle produzioni casalinghe che nel passato coinvolgevano emotivamente l’intera famiglia, si avverte la necessità di prendere seriamente in considerazione iniziative volte alla sua salvaguardia.

In primis, la stesura di un disciplinare, o un capitolato su base volontaria, per fissare la storicità della ricetta e per regolamentarne la produzione. Ne seguirebbe un marchio di autenticità che andrebbe a certificare la manifattura nel rispetto della ricetta originaria. 

Non è da trascurare un percorso di formazione che aiuti i giovani e i gestori delle attività commerciali, abilitate alla vendita, a riscoprire, gustare e presentare al pubblico la Farrata non solo come prodotto gastronomico tipico della città, ma come elemento identitario del territorio e del Popolo Sipontino.

 

È doveroso sottolineare che tali iniziative non devono essere percepite come ostacolo alle infinite possibilità future legate al rustico. Ciò cui esse devono mirare è fissare la ricetta storica, sopravvissuta per millenni, così come ci è stata tramandata dai nostri Padri e farne un punto di partenza per successive elaborazioni che mai devono cancellare le proprie radici. 

 

(Pasquina Sacco, Sociologa, esperta in storia e cultura del cibo)